Energia pulita dal nucleare: i Pro e i Contro.
Salerno - Lunedì 31 gennaio 2022.
Nei prossimi anni, quando tutta l'umanità del nostro pianeta sarà chiamata per decidere del suo immediato futuro, la Tassonomia dell'UE per le attività sostenibili, e cioè un sistema di classificazione che stabilisce un elenco di attività economiche ecosostenibili, sarà il problema principale su cui discutere e decidere.
Per conseguire gli obiettivi dell'UE in materia di clima ed energia per il 2030 e conseguire gli obiettivi del Green Deal europeo, è essenziale che gli investimenti siano diretti verso progetti e attività sostenibili, soprattutto in presenza dell'attuale pandemia di COVID-19, che ha rafforzato la necessità di riorientare i fondi verso progetti ecosostenibili, in modo da rendere le nostre economie, imprese e società (in particolare i sistemi sanitari) più resilienti agli shock climatici e ambientali.
A tal fine è necessario un linguaggio comune e una chiara definizione di ciò che è "sostenibile".
Il regolamento sulla tassonomia, pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea il 22 giugno 2020 ed entrato in vigore il 12 luglio 2020, stabilisce i seguenti 6 obiettivi ambientali:
- Mitigazione dei cambiamenti climatici
- Adattamento ai cambiamenti climatici
- L'uso sostenibile e la protezione delle risorse idriche e marine
- La transizione verso un'economia circolare (*che consiste, attualmente, nelle varie raccolte di plastica, carte e cartoni, plastica e indifferenziato)
- Prevenzione e controllo dell'inquinamento
- Protezione e ripristino della biodiversità e degli ecosistemi
Dopo la descrizione teorica del problema, la Commissione è passata ai fatti, emanando degli Atti.
Un primo atto delegato sulle attività sostenibili per gli obiettivi di adattamento ai cambiamenti climatici e di mitigazione dei cambiamenti climatici è stato approvato in linea di principio il 21 aprile 2021 e formalmente adottato il 4 giugno 2021 per il controllo dei co-legislatori. Un secondo atto delegato per i restanti obiettivi sarà pubblicato nel 2022.
Valutazione dell'energia nucleare
Nel 2020 la Commissione ha avviato lavori approfonditi per valutare se includere o meno l'energia nucleare nella tassonomia dell'UE di attività ecosostenibili.
Come primo passo, il Centro comune di ricerca, il servizio interno di scienza e conoscenza della Commissione, ha elaborato una relazione tecnica sugli aspetti "non arrecare un danno significativo" dell'energia nucleare. La presente pubblicazione è una relazione del CCR sulla scienza per le politiche, che mira a fornire un sostegno scientifico basato su dati concreti al processo di elaborazione delle politiche europee.
La relazione scientifica non implica una posizione politica della Commissione europea. La presente relazione è stata riesaminata da due gruppi di esperti, il gruppo di esperti sulla radioprotezione e la gestione dei rifiuti ai sensi dell'articolo 31 del trattato Euratom, nonché il comitato scientifico per la salute, l'ambiente e i rischi emergenti relativi all'impatto ambientale.
Dopo due referendum contrari (quello del 1987 e quello del 2011), oggi il nucleare torna a far parlare di sé, perché se è vero che il Green Deal a cui aderiamo impone di portare a zero il bilancio netto di emissioni di gas serra in Europa entro il 2050, è anche vero che da qualche parte l'energia dobbiamo pur prenderla. E il nucleare, con tutti i suoi difetti, ha un indubbio vantaggio: non produce gas serra*
(*Si definiscono «gas serra» i gas nell'atmosfera che incidono sul bilancio energetico della terra. Questi gas generano il cosiddetto effetto serra. I principali gas serra, ovvero biossido di carbonio (CO₂), metano e protossido di azoto, sono presenti per natura nell'atmosfera in concentrazioni limitate).
Il principio su cui si basano tutte le centrali nucleari è quello della fissione, in base al quale il nucleo di un elemento di grande massa come l'uranio-235 si scinde in due nuclei più piccoli emettendo un neutrone (i nuclei atomici sono composti da neutroni e protoni incollati tra loro dalle forze nucleari). Questo neutrone libero a sua volta può colpire un altro nucleo di uranio-235, stimolando un'altra reazione di scissione. In questo modo, si può innescare un processo a catena che genera energia e altri elementi di scarto (scorie).
La differenza sta nella rapidità con la quale si libera l’energia prodotta dalla fissione nucleare di una certa quantità di uranio. Nella bomba, tutta l’energia si libera in una frazione di secondo, con effetti disastrosi. Nella pila, la reazione nucleare è rallentata, così da rilasciare l’energia poco a poco in un lungo arco di tempo. Se a ogni passo della catena il numero dato dalla differenza tra neutroni prodotti e neutroni persi cresce, la reazione aumenta rapidamente fino a diventare esplosione (bomba). Se il numero diminuisce, la reazione si spegne. Se è uguale, la reazione produce energia in modo costante (pila o reattore nucleare). Nella pila, per regolare il numero di neutroni - per realizzare cioè la condizione di eguaglianza del numero di neutroni persi e guadagnati nell'unità di tempo - si inseriscono o si tolgono dall’uranio alcune barre di cadmio o boro, che assorbono facilmente neutroni.
L'energia che si libera è tanta, molta più di quella che possono produrre in proporzione le tradizionali reazioni chimiche di combustione; e questo è il motivo per cui si costruiscono queste centrali.
Le scorie, e gli incidenti come quelli di Chernobyl (1986) e Fukushima (2011), invece, sono i principali motivi per cui il nucleare è mal visto da ampie fasce della popolazione.
Nel frattempo, però, la tecnologia ha fatto passi avanti, per cui in un lasso di tempo relativamente breve si è passati dai reattori sperimentali di prima generazione, come quello di Latina del 1963, a quelli di quarta generazione che già si cominciano a studiare e che promettono di risolvere perfino il problema delle scorie; non solo quelle future, ma anche quelle esistenti. In mezzo, c'è un'infinita varietà di soluzioni sulle quali si dovrebbe focalizzare il dibattito.
L'immagine a lato illustra il funzionamento del reattore della centrale nucleare in costruzione negli Stati Uniti. Tale reattore, fu chiamato "pila atomica" la prima volta da Enrico Fermi, che è stato lo scopritore del suo principio teorico di funzionamento); ma la definizione più precisa è quella attuale di "reattore nucleare".
Una pila è schematicamente costituita da blocchetti di uranio disposti a reticolo (oppure da sbarre di uranio) immersi, a diverse profondità, in un mezzo rallentatore dei neutroni (moderatore), circondato da uno strato di materiale fortemente diffusore dei neutroni (riflettore), racchiuso a sua volta entro uno schermo di notevole spessore, destinato alla protezione del personale.
Vediamo come funziona un reattore nucleare.
Nella parte bassa del reattore avvengono le reazioni riportate nella immagine precedentemente vista: i gas caldissimi della combustione nucleare salgono nella parte alta del reattore, dove sono costretti a circolare attorno ai fasci tubieri di scambiatori di calore, cui cedono il loro calore. Il vapore prodotto dall'acqua che circola nei fasci tubieri è trasmesso ad un generatore di elettricità, e la corrente elettrica prodotta viene trasmessa attraverso linee ad alta tensione verso gli agglomerati urbani, alla periferia dei quali è trasformata in elettricità a bassa tensione mediante gruppi di trasformatori della corrente elettrica, alloggiati in apposite cabine accuratamente recintate, per ovvi motivi di sicurezza pubblica.
Che cosa accade quando un reattore va fuori controllo? Se non opportunamente raffreddato, infatti, un reattore può andare incontro alla fusione del nocciolo, praticamente alla sua liquefazione, con le barre di combustibile che finiscono col trasformarsi in una poltiglia bollente.
Disastro di Cernobyl.
Il disastro di Chernobyl, avvenuto il 26 aprile 1986 alle ore 1:23 presso la centrale V.I.Lenin, è stato il più grave incidente nucleare della storia. Ricordato come una tragedia sia per l’intensità dell’esplosione, sia per le terribili conseguenze che ebbe sulla popolazione ucraina ed europea, l’incidente nucleare di Chernobyl è stato classificato come catastrofico con il livello 7 della scala INES dell’IAEA, raggiunto solamente nel 2011 dal disastro della centrale di Fukushima Dai-ichi. Numero di decessi e vittime della tragedia di Chernobyl sono ancora, a 30 anni dall’accaduto, tutte da definire; di certo si tratta di una delle pagine più nere della storia contemporanea.
Ma cosa accadde esattamente quel 26 aprile di così grave da causare un disastro di una tale portata come fu quello di Chernobyl? Durante un test definito “di sicurezza” al reattore n.4 della centrale V.I. Lenin, situata in Ucraina Settentrionale, il personale si rese responsabile di alcune manovre azzardate e della violazione di diversi protocolli e norme di sicurezza, causando un repentino aumento della potenza del nocciolo del reattore. Furono errori banali, probabilmente frutto di una scarsa consapevolezza dei danni che avrebbero potuto provocare.
Ne conseguì la fusione delle barre di combustibile e un vorticoso aumento della pressione capace di distruggere gli impianti di raffreddamento. Il contatto dell'idrogeno e della grafite delle barre di controllo con l’aria determinò una terribile esplosione e lo scoperchiamento del reattore, rilasciando così radiazioni nell’aria e causando gravi incendi. Il rilascio radioattivo dell’esplosione fu 400 volte più potente della bomba atomica sganciata su Hiroshima.
Dall’esplosione si creò quindi una colonna di fumo che trasportò nell’aria particolari radioattivi, in parte altamente nocivi. Più della metà ricaddero nella cosiddetta “Zona Rossa”, l’ambiente cioè più prossimo alla centrale che comprendeva le città di Chernobyl e Pripyat, una discreta percentuale (circa il 35%) venne invece trasportato dalle correnti nel resto dell’Europa. La contaminazione toccò livelli rilevanti in Ucraina, Bielorussia e in alcune zone della Russia, mentre ebbe conseguenze quasi nulle sul restante continente europeo.
A circa 30 anni dal disastro di Chernobyl, ancora non possediamo dati certi su quali siano state le reali conseguenze in termine di vite della tragedia nucleare. Stando alle stime redatte dall’ONU nel 2005, i morti collegati direttamente all’incidente di Chernobyl (soccorritori, vigili del fuoco, addetti ai lavori) ammonterebbero a 65, mentre circa 4mila sarebbero i decessi solamente presunti, il cui collegamento non è verificabile. Secondo il rapporto TORCH, invece, i morti non rilevabili sarebbero molti di più, circa 9mila. Ancora oggi, tuttavia, i gravi effetti del disastro di Chernobyl sono ben tangibili: malformazioni, tumori, problemi alle gravidanze, contaminazioni di piante ed animali fanno parte della quotidianità degli abitanti dell’Ucraina e, purtroppo, le vere conseguenze di quella tragedia sono ancora in parte da scoprire.
Disastro di Fukushima.
Il disastro nucleare di Fukushima, il secondo più grave della storia dopo Chernobyl, è avvenuto l’11 marzo 2011 a seguito del violento tsunami che colpì il Giappone, ed ancora oggi la popolazione locale e le aree colpite devono fare i conti per spazzare via la pesante e complessa eredità del disastro. Ancora oggi ci sono almeno 35.000 persone ancora sfollate a causa dell’incidente e la strategia del governo non sta funzionando.
Per raccontare il disastro nucleare di Fukushima occorre sottolineare le cause, fare un riassunto e spiegare le conseguenze di quel tragico 11 Marzo 2011: giorno destinato a rimanere impresso in modo indelebile nella memoria di tutti gli abitanti del Giappone.
In quella fatidica data si abbatté sulle coste nord-orientali giapponesi uno tsunami dalle dimensioni enormi, con delle onde alte fino a 40 metri, causato da un maremoto di magnitudo 9.0. Oltre a lasciare una scia di morti e devastazione, 15700 i morti e 332 mila gli edifici distrutti, lo tsunami colpì anche la centrale nucleare di Fukushima. In seguito al maremoto, i reattori ad acqua bollente utilizzati dalla centrale smisero di funzionare innescando immediatamente il meccanismo di sicurezza che bloccò il processo di fissione nucleare che avveniva nel nocciolo della centrale.
Nonostante la repentina messa in sicurezza della centrale, rimase il problema di come eliminare e smaltire le grandi quantità di calore prodotto dalla fissione. Questo compito lo aveva il sistema di raffreddamento già presente all’interno della centrale ma che smise di funzionare proprio a causa del maremoto. Il malfunzionamento del sistema di raffreddamento portò a tre crisi nucleari, esplosioni d’aria e di idrogeno e il rilascio di sostanze radioattive, altamente nocive, nei luoghi limitrofi.
Inoltre successe come a Chernobyl nel 1986: ci fu una fusione del nocciolo di livello 7, gradino più alto della International Nuclear Event Scale (INES).
Si stima che fra morti e dispersi ci furono oltre 20mila vittime e circa 120mila persone furono costrette ad abbandonare le proprie case e la propria città a causa delle radiazioni. Inoltre uno studio condotto dall’Università giapponese di Kanazawa stima che tutt’oggi si possa trovare il cesio-137 (una variante radioattiva del cesio generata della fissione nucleare) nella sabbia di otto spiagge distanti addirittura 100 chilometri dalla centrale nucleare e che nelle falde acquifere dell’intera regione ve ne siano quantità dieci volte superiori: problema non indifferente per salvaguardare la salute pubblica.
Nonostante ci vorranno anni per stabilire tutte le conseguenze ambientali, sanitarie e sociali di questo terribile disastro, finora si è registrato un aumento esponenziale di casi di cancro alla tiroide nei bambini, da una media di 3 casi su un milione a 152 casi su 590mila. Ciò che sorprende è che ufficialmente non è mai stato confermato un diretto collegamento tra questa preoccupante tendenza e l’esplosione della centrale di Fukushima.
Nel febbraio del 2017 la TEPCO (Tokyo electric power company), che gestisce la centrale nucleare, è stata condannata a risarcire per più di 1 miliardo di yen (circa 8 milioni di euro) la popolazione di Minami-soma, una delle città più colpite dal disastro. Il tribunale ha riconosciuto infatti la negligenza del governo e della TEPCO per non aver disposto la ventrale di misure anti-tsunami. In seguito a due class action la compagnia fu ulteriormente condannata a pagare quasi 600 milioni di yen sempre per risarcire le persone sfollate a causa dell’incidente
Il nucleare: rischi e benefici.
Intorno al 2050 è probabile che la popolazione mondiale e i consumi pro capite di energia saranno maggiori di quelli attuali. Non è probabile, invece, che si realizzino le seguenti condizioni: crescita della produzione di petrolio e di gas naturale per far fronte ai maggiori consumi; ruolo dominante delle energie rinnovabili; disponibilità di energia da fusione nucleare; riduzione dei consumi pro capite ed eventualmente di quelli totali attraverso il risparmio energetico; ruolo ridotto dei vincoli ambientali. Probabilmente si realizzerà lo sfruttamento di nuove risorse di combustibili fossili, come gli idrati di metano e/o gli scisti bituminosi, ma accanto a questo aspetto positivo dobbiamo considerare anche aspetti negativi, come lunghi tempi di attuazione delle innovazioni; concorrenza di tecnologie collaudate e resistenze del mercato; onere di elevati costi iniziali; raggiungimento dell’accettazione sociale.
Pertanto, in prospettiva la situazione energetica mondiale si può valutare come assolutamente critica.
Soltanto ricorrendo con grande determinazione a tutte le possibili opzioni, nucleare da fissione incluso, si potrà attenuare la portata di tale crisi. I benefici sono, invece, notevoli: l’energia nucleare da fissione è sicura, economica e anche favorevole all’ambiente (AEN/NEA 2007; BERR 2008). Ne è conferma il rinnovato e generalizzato interesse con cui si guarda a questa fonte di energia, anche in Paesi che apparentemente dovrebbero essere meno preoccupati per la possibile carenza di combustibili fossili.
L'energia nucleare da fissione.
L'inizio dell'utilizzo industriale del processo di fissione nucleare, iniziato nel 1950 con la realizzazione di reattori nucleari, subì un rallentamento a causa dei due disastri descritti, e cioè nel 1979 (reattore di Three Mile Island, TMI, negli Stati Uniti) e nel 1986 (reattore di Černobyl´ in Unione Sovietica).
Questo rallentamento ha comunque riguardato soprattutto il mondo occidentale, perché Paesi asiatici come Giappone, Repubblica di Corea, Taiwan e, più recentemente, Cina e India non hanno mai smesso di puntare sull’energia nucleare.
Oggi si assiste a una rinascita del nucleare, che ne fa intravedere un ruolo fondamentale nel futuro panorama energetico mondiale.
Negli ultimi anni, con l’obiettivo di migliorare sotto vari profili le prestazioni dei reattori, si è avuta una diversa ondata di proposte di nuovi tipi, sui quali sono stati avviati programmi di ricerca e sviluppo a livello internazionale. Questi reattori sono definiti di IV generazione (US-DOE, GIF 2002); quella sul mercato attualmente è la terza.
L’uranio è un combustibile molto efficiente, che genera un’energia circa diecimila volte maggiore di quella generata da una massa uguale di combustibile fossile. Tuttavia, anch’esso si consuma, e quindi l’energia nucleare dipende dall’abbondanza di questa materia prima. Il calcolo dell’ammontare delle risorse di uranio esistenti al mondo è un problema assai importante per il futuro dell’energia nucleare e per la scelta dei tipi di reattore.
Aspetti peculiari dell’energia nucleare.
Gli aspetti critici dell’energia nucleare sono tre: sicurezza, complessità e proliferazione.
Nel caso della sicurezza, il suo continuo miglioramento è stato imposto dalle autorità di sicurezza nazionali per ragioni obiettive, ma anche per le spinte dell’opinione pubblica, non sempre giustificate sul piano tecnico.
In molti casi si sono avuti notevoli ritardi nella costruzione di nuove centrali e lunghi periodi di spegnimento in quelle funzionanti per effettuare i miglioramenti richiesti; in pochi casi addirittura l’abbandono, molto prima della fine della vita operativa.
Ai ritardi nella costruzione di nuove centrali e lunghi periodi di spegnimento in quelle funzionanti per effettuare i miglioramenti richiesti occorre aggiungere anche i costi relativi al ciclo del combustibile, che è impegnativo e abbraccia un lungo periodo di tempo.
Le sue fasi più importanti sono:
a) l’arricchimento dell’isotopo fissile, l’uranio-235, che è contenuto soltanto per lo 0,71% nell’uranio naturale;
b) la permanenza per qualche anno in reattore per produrre energia;
c) il trattamento del combustibile esaurito, scaricato dal reattore.
Affidabilità.
L’affidabilità di un impianto può essere definita come la probabilità che non capiti un guasto tale da impedire all'impianto di funzionare in un determinato periodo di tempo e sotto specifiche condizioni di funzionamento.
Nel caso di una centrale nucleare, l’affidabilità diviene particolarmente importante per i seguenti motivi:
a) in tali centrali il capitale ha un’elevata incidenza sul costo dell’energia prodotta (un guasto penalizza più per l’energia non prodotta che per il costo della riparazione);
b) è difficile fronteggiare la non disponibilità di elevate potenze (tale onere dipende dalla dimensione della rete elettrica);
c) costituisce un indice della validità della tecnologia su cui è basata la centrale e, quindi, anche della sua sicurezza;
d) la riparazione di guasti è difficile e onerosa, se riguarda sistemi con presenza di radiazioni.
L’affidabilità delle centrali nucleari ha ricevuto nel corso degli anni valutazioni sia positive che negative.
Negli ultimi anni si è avuto comunque un netto miglioramento, per cui nei 438 impianti funzionanti al mondo si registra un funzionamento medio a piena potenza per circa l’80% del tempo.
Sicurezza.
I problemi di sicurezza hanno assunto, fin dalla prima applicazione dell’energia nucleare, un’importanza primaria a causa dell’enorme pericolo potenziale derivante dall’accumulo di ingenti quantità di prodotti radioattivi nel combustibile.
Un accidentale rilascio nell’atmosfera di una parte di questi prodotti potrebbe avere conseguenze assai gravi per la popolazione circostante e il territorio. Il combustibile fresco è solo debolmente radioattivo, ma durante il funzionamento la fissione produce un enorme aumento della radioattività. La maggior parte di questa radioattività è dovuta ai prodotti di fissione veri e propri, il resto ai transuranici, mentre una piccola quantità è dovuta ai materiali del nocciolo, non appartenenti al combustibile, attivati da catture di neutroni.
Lo scopo primario della sicurezza è quello di salvaguardare l’incolumità della popolazione contro i pericoli di rilascio di prodotti radioattivi. Non esiste nessun altro pericolo, tanto meno la possibilità che si abbiano situazioni sia pur lontanamente confrontabili con quelle di un’esplosione nucleare.
Nel quadro generale dei problemi di sicurezza bisogna considerare, oltre alle centrali nucleari di potenza, anche gli impianti del ciclo del combustibile: ci si riferisce all’estrazione dell’uranio e, soprattutto, al trattamento del combustibile esaurito e all’immagazzinamento dei prodotti di fissione in esso contenuti.
Gli eventi che determinano un incidente di rilascio di prodotti radioattivi possono essere di origine interna o esterna. Quelli interni sono definibili come malfunzionamenti o rotture dell’impianto e interventi non corretti da parte degli operatori. Gli eventi esterni sono tipicamente quelli naturali, come terremoti, tornado, allagamenti, come pure l’impatto con la centrale di aerei o missili e l’esplosione di nubi di gas o vapori infiammabili, sfuggiti da serbatoi. Inoltre, un reattore nucleare, anche quando è spento, produce sempre della potenza (in misura di qualche punto percentuale della potenza nominale), a causa delle emissioni radioattive dei prodotti di fissione accumulati nell’elemento di combustibile, che decade lentamente. Senza un sistema di raffreddamento del nocciolo, anche di efficacia limitata, si arriverebbe così prima o poi alla fusione del combustibile. Il reattore può anche salire di potenza oltre il valore nominale, sia per malfunzionamenti del sistema di controllo, sia per gli effetti dovuti a variazioni non volute di diversi parametri, come pressione, temperatura, grado di vuoto del fluido termovettore. In questo caso si hanno rilasci di energia che possono essere pericolosi per l’integrità del nocciolo.
La sicurezza di un impianto si basa su cinque punti:
1) progetto dell’impianto (come scelta di soluzioni che rendono minima la possibilità di determinate potenziali situazioni di pericolo, e, in particolare, quella di far salire la potenza oltre il valore nominale); 2) qualità del prodotto; 3) sistema di protezione; 4) scelta del sito; 5) autorità di sicurezza.
I guasti si riducono se i prodotti sono esenti da difetti. Per questo, s’impone che la cura e la meticolosità con cui deve essere progettato, costruito e mantenuto in esercizio l’impianto nucleare siano molto elevate, e uniche nel campo industriale, con l’eccezione di quelle impiegate per l’industria aeronautica e spaziale.
L’impianto, costruito come si è detto a regola d’arte, è poi dotato di un’articolata serie di complessi sistemi di protezione che ha lo scopo di mitigare gli effetti di un eventuale incidente.
Con un’accurata scelta del sito si cerca di ridurre sia la probabilità di eventi avversi esterni sia la gravità delle conseguenze degli incidenti sulla popolazione. Poiché un incidente può mettere a repentaglio l’incolumità della popolazione, in tutti i Paesi progrediti esiste una legislazione nucleare che, in particolare, fissa le norme per ottenere le autorizzazioni nelle varie fasi di approntamento di un impianto. Per questo esiste un ente indipendente (chiamato in Italia ASN, Agenzia per la Sicurezza Nucleare, l. 23 luglio 2009 n. 99), cui viene demandata la responsabilità di verifica del soddisfacimento di queste norme.
Per quanto riguarda la sicurezza del ciclo di combustibile a valle del reattore, bisogna distinguere gli attinidi dai prodotti di fissione. I primi sono una serie di elementi con proprietà chimiche simili, con numero atomico tra 89 e 103; tra questi i più importanti nel determinare la tossicità a lungo termine e il carico termico del combustibile scaricato sono l’uranio, il plutonio, il nettunio, l’americio e il curio. I prodotti di fissione più pericolosi sono lo stronzio-90, il cesio-137 e, in minor misura, il cripton-85; questi isotopi hanno tempi di dimezzamento non superiori a 30 anni. È necessario, quindi, attendere alcuni secoli prima di ridurre la loro pericolosità a livelli accettabili. Gli attinidi o i transuranici, invece, hanno vite medie molto più lunghe: per es., il plutonio-239, che è l’attinide più abbondante, ha un tempo di dimezzamento di 24.400 anni, per cui per avere una significativa riduzione della quantità iniziale occorrono alcune centinaia di migliaia di anni.
Tenuto, quindi, conto della pericolosità dei prodotti radioattivi nel combustibile esaurito e della loro longevità, è necessario prevedere per essi un confinamento stabile nel tempo, che li separi dalla biosfera. Questa è un’operazione molto complessa che pone problemi di carattere sociale e politico, oltre che tecnico. Infatti, proprio per la durata del confinamento, bisogna ipotizzare o sistemi di sorveglianza che funzionino per generazioni, tenendo conto dei pericoli derivanti dagli inevitabili capovolgimenti politici, o sistemi di immagazzinamento definitivi e non controllati, i quali devono assicurare nel modo più categorico che non si abbia mai una dispersione dei prodotti radioattivi nella biosfera.
L’isolamento con la biosfera viene così realizzato interponendo tra la sostanza pericolosa e l’ambiente esterno un sistema di barriere di contenimento, poste in successione. Per i rifiuti di alta attività o a lunga vita la scelta del deposito definitivo è più problematica, per una serie di difficoltà di natura più politica che tecnica. Infatti, nessun deposito per questi rifiuti è attualmente in funzione nel mondo, anche se importanti iniziative sono in corso di approntamento in Paesi che pongono la massima attenzione ai problemi ambientali e di sicurezza. La scelta è in questo caso rivolta a strutture sotterranee, geologicamente stabili, impermeabili all’acqua, come miniere di salgemma abbandonate, rocce cristalline, graniti non fratturati, bacini argillosi (AEN/NEA 2006).
Economia.
La valutazione dei costi, problematica per molte attività industriali, è ancora più delicata nel caso dell’energia elettronucleare. Risulta difficile estendere i dati economici da un Paese a un altro, per l’oggettiva differenza del costo del lavoro, delle materie prime e del denaro, per le oscillazioni dei cambi, per la diversità dei criteri di valutazione impiegati. Vi sono poi oneri aggiuntivi relativi ai programmi di ricerca e sviluppo, allo smaltimento dei rifiuti radioattivi, allo smantellamento della centrale a fine vita e altro ancora.
Un aspetto importante nella struttura dei costi di un kWh nucleare sta nella maggiore incidenza del costo capitale rispetto a quanto avviene per una centrale termoelettrica tradizionale: questa differenza è marcata rispetto alle centrali a olio combustibile e a gas naturale (v. tabella). Inoltre, anche per il combustibile l’onere del capitale è generalmente più elevato nel caso del nucleare che in quello dei combustibili fossili. Ciò comporta, come detto in precedenza, una grande importanza dell’affidabilità dell’impianto nucleare che dovrebbe funzionare sempre alla massima potenza possibile.
La competitività economica delle centrali nucleari rispetto a quelle convenzionali è stata raggiunta, almeno per le valutazioni a preventivo, già dal 1966-67, per la naturale evoluzione delle conoscenze e delle tecnologie e per l’aumento delle potenze unitarie. Successivamente, la riduzione dei fattori di carico delle centrali funzionanti, per le ragioni sopra indicate, e il basso costo dei combustibili fossili resero meno competitive le centrali nucleari. Poiché ambedue i fattori si sono decisamente invertiti negli ultimi anni, la competitività delle centrali nucleari è ora fuori discussione. Infine, la scelta di una simile alternativa ha una forte valenza strategica, considerando che nell’arco di tempo caratteristico della durata degli impianti energetici (nucleari e non nucleari), che è dell’ordine di parecchie decadi, certamente gli effetti ambientali e l’entità delle risorse dei combustibili fossili risulteranno parametri sempre più critici (AEN/NEA, IEA/AIE 2005).
Interazione con l’ambiente
Soddisfatti i requisiti di sicurezza, che garantiscono una probabilità estremamente bassa di avere un incidente con impatto ambientale, una centrale nucleare, essendo un sistema chiuso, non ha certamente interazioni con l’aria e quindi non produce inquinamento atmosferico. È questo un sicuro vantaggio rispetto alle centrali termoelettriche convenzionali che, per le loro emissioni di anidride solforosa, ossidi d’azoto e polveri sollevano notevoli preoccupazioni ambientali. Nel caso dell’impiego del carbone si possono perfino avere emissioni radioattive superiori a quelle ipotizzate in una centrale nucleare. Inoltre, il rilascio in atmosfera di anidride carbonica generata nei processi di combustione suscita un crescente allarme per il global warming, la cui influenza negativa sul clima terrestre potrebbe essere rilevante (AEN/NEA 2002). L’emissione di anidride carbonica durante l’esercizio della centrale di potenza è quasi nulla, mentre vi è una certa produzione nel sistema a monte e a valle: estrazione e arricchimento dell’uranio, fabbricazione dei componenti e costruzione della centrale, ritrattamento del combustibile e deposito finale. Tuttavia, la produzione totale di CO2 per unità di energia prodotta è ben al di sotto di quella di tutte le energie derivanti dai combustibili fossili (AEN/NEA 2007).
Altre caratteristiche.
Vi sono altre caratteristiche che giocano un ruolo importante in questo processo di sviluppo, soprattutto a favore. Vediamone i più importanti.
L’utilizzo dell’energia nucleare è oggi praticamente limitato alla produzione di energia elettrica con impianti di grande potenza. Si tenga presente che l’energia elettrica rappresenta una frazione importante dei consumi totali di energia, circa un terzo, ed è in continua crescita.
L’energia nucleare è anche impiegata per la propulsione navale, ma in modo estensivo soltanto per sottomarini militari. Ne viene ipotizzato l’impiego per la dissalazione delle acque e per il riscaldamento urbano, ma per ora esistono al mondo pochi esempi in proposito e solo con reattori prototipi.
Un altro campo di notevole interesse è quello della propulsione di razzi interplanetari o della fornitura dell’energia necessaria a eventuali colonie umane su altri pianeti. Anche nell’ipotesi più favorevole, tutte queste applicazioni non dovrebbero però risultare rilevanti in termini energetici, anche se stimolanti dal punto di vista sia concettuale sia tecnologico. Nel lungo periodo si potrebbe produrre in grande scala anche l’idrogeno. Questo vettore energetico potrebbe avere, come l’elettricità, moltissimi impieghi nel campo industriale, civile e dei trasporti, ma il suo costo di produzione è attualmente troppo elevato con i metodi classici.
Per molti Paesi carenti di risorse energetiche e per questo fortemente debitori verso l’estero, la bilancia dei pagamenti risulterebbe più equilibrata con l’uso dell’energia nucleare. Infatti, almeno in linea di principio, quasi tutto il costo dell’energia nucleare può derivare da attività di progetto e costruzione effettuabili all’interno del Paese. Sotto questo profilo, è veramente sostanziale il vantaggio rispetto a impianti termoelettrici a olio combustibile e gas naturale, in cui l’onere del combustibile (importato) rappresenta la maggior parte del costo complessivo dell’energia.
Tra lo sviluppo iniziale di un nuovo concetto di reattore nucleare e l’installazione della prima centrale commerciale su di esso fondata passano parecchi anni, durante i quali le spese di ricerca e sviluppo da sostenere sono ingenti e crescenti nel tempo; si deve prevedere tra l’altro la costruzione di uno o più impianti prototipo. Si tratta, quindi, di un’impresa altamente impegnativa sul piano economico, programmatico e politico, e al tempo stesso rischiosa, come dimostrano i non pochi progetti concettualmente innovativi abbandonati, anche nelle fasi finali dello sviluppo. Tuttavia, bisogna sottolineare che tale imponente sforzo ha sicuramente ricadute vantaggiose sul tessuto delle attività scientifiche e industriali di un Paese.
La costruzione di impianti nucleari richiede l’esistenza di un’organizzazione industriale evoluta ed economicamente potente. Si tratta di mettere a punto tecnologie e processi industriali raffinati e innovativi rispetto a quelli tradizionali. Occorrono grossi investimenti per le infrastrutture fin dalle prime fasi del progetto. Le procedure di controllo della qualità sono molto importanti e assai più stringenti di quelle normalmente in uso. Occorre personale altamente specializzato, il cui addestramento richiede tempi lunghi. Anche in questo caso si deve rilevare l’impatto positivo che un’attività così singolare esercita su tutta la struttura industriale di un Paese, che in tale maniera viene indotta a cimentarsi con produzioni fortemente impegnative e trainanti.
Nell’esercizio di centrali nucleari è assai ridotto l’uso di mezzi di trasporto, con tutti i vantaggi diretti e indiretti che ne derivano. Tuttavia, il trasporto del combustibile irraggiato, anche se molto saltuario e riguardante quantità relativamente modeste, risulta complesso per i problemi di sicurezza connessi e anche per i suoi risvolti sociali e politici.
I sintesi, le linee di sviluppo delle nuove soluzioni nei seguenti settori, tra loro interdipendenti, sono:
a) sicurezza; b) semplificazione e standardizzazione del sistema; c) economia ed effetto scala nella potenza unitaria;
d) combustibile; e) smantellamento degli impianti a fine vita; f) estensione della vita degli impianti; g) rifiuti ad alta attività.
La sicurezza degli impianti di potenza costruiti nel mondo occidentale si è dimostrata di elevato livello e tale da garantire ampiamente la salvaguardia del pubblico.
L’unico grave incidente, quello della centrale TMI, non ebbe impatti sanitari sul pubblico e sull’ambiente, a parte i contraccolpi psicologici dovuti all’incertezza della situazione determinatasi subito dopo l’episodio.
Costituisce un caso a sé l’incidente della centrale sovietica di Černobyl′, per il diversissimo contesto tecnico, sociale e organizzativo. Peraltro, tale evento occorse durante un esperimento e non durante l’esercizio normale della centrale.
L’incidente di TMI dimostrò, da un lato, la grande utilità del contenitore – circostanza ancor più evidenziata nel caso di Černobyl′, dove tale elemento mancava – che venne adottato fin dalle prime costruzioni nel mondo occidentale a difesa del reattore, dall’altro l’esigenza di fronteggiare o meglio di evitare la fusione del combustibile, situazione fino a quella data non esplicitamente considerata. Infatti, in TMI si ebbe la fusione di una significativa porzione del combustibile nucleare, che però venne contenuta all’interno del recipiente del reattore, senza determinare pericoli all’esterno; la fusione del combustibile si verificò anche a Černobyl′, dove il combustibile fuso si rapprese sotto il reattore. Pertanto, nei nuovi reattori si fronteggia questo rischio secondo tre possibili alternative: con un crogiolo di contenimento del combustibile fuso, nel caso esso fuoriesca dal recipiente in pressione; con la modifica del processo, in modo che il combustibile rimanga all’interno del recipiente in pressione (quello che è successo in TMI, per concause che non possono però essere sempre garantite); con modifiche più sostanziali nel processo, in modo che il combustibile venga sempre raffreddato e non possa mai fondere. Si è anche affermato il concetto che i sistemi di protezione passivi, quelli che intervengono automaticamente sulla base di principi fisici, siano preferibili a quelli attivi, che richiedono apporti di energia dall’esterno per funzionare, anche in vista della esigenza di semplificare il sistema. In sintesi, è l’applicazione del moderno criterio della sicurezza da progetto (safety by design), per il quale l’impianto è concepito in modo tale che gli incidenti più gravi non possano avvenire. Questi miglioramenti della sicurezza dovrebbero consentire tra l’altro l’eliminazione del piano di emergenza per evacuare la popolazione circostante in caso d’incidente, rivelatosi costoso, scarsamente efficace e difficile da gestire.
I continui miglioramenti della sicurezza realizzati nel passato sono stati effettuati con l’aggiunta di nuovi o più articolati sistemi di protezione, che alla fine hanno determinato un aumento della complessità del sistema. Da questa esperienza si è compreso che il sistema deve essere invece considerato fin dall’inizio nella sua interezza, cercando di eliminare situazioni potenzialmente pericolose, così da cogliere tutte le possibilità di semplificazione. Inoltre, si intende ormai adottare, più che nel passato, impianti standardizzati, per ridurre i costi e i tempi di costruzione, seppure con qualche controindicazione. Infatti, un impianto standardizzato non sempre risponde alle esigenze di un elettroproduttore; inoltre, se un suo esemplare rivela un difetto, non è trascurabile il rischio che questo si manifesti anche in tutti gli impianti gemelli, con rilevanti perdite economiche e di disponibilità.
Con l’invecchiamento di alcune centrali di potenza ormai a fine vita operativa, è emerso con tutta evidenza il problema del loro smantellamento, detto comunemente decommissioning. È un’operazione complessa, costosa e di lunga durata. In realtà, il costo, assai elevato in termini assoluti, viene ampiamente ridotto in termini finanziari, perché lo smantellamento vero e proprio inizia alcuni decenni dopo lo spegnimento dell’impianto. È poi risultato evidente che si possono ridurre i costi già in sede di progetto dell’impianto (Cumo, Tripputi, Spezia 20042).
Questo problema ha indotto ad allungare la vita degli impianti, poiché i loro principali componenti possono vivere molto più a lungo di quanto ipotizzato, così da ridurre il numero e l’onere dei decommissioning e le difficoltà di trovare altri siti per le nuove centrali. Si assume comunemente che i nuovi reattori debbano essere caratterizzati da cicli operativi di 50-60 anni, contro i 25-30 ipotizzati per quelli del passato.
Il trattamento dei rifiuti ad alta attività, derivanti per la stragrande percentuale dal combustibile scaricato, viene visto talvolta come un problema tale da non consentire addirittura l’utilizzo dell’energia nucleare. Le obiezioni che nel passato si rivolgevano alla sicurezza delle centrali, si sono progressivamente spostate su tale aspetto. In realtà, esistono in merito alcune soluzioni, e Paesi di grande sensibilità ambientale come la Svezia e la Finlandia stanno già realizzando siti per lo stoccaggio in cui riporre in modo stabile e sicuro questi rifiuti. Non bisogna dimenticare che si tratta di quantità modeste rispetto all’energia prodotta (alcuni metri cubi all’anno per una grande centrale), e che ceneri e gas tossici vengono prodotti, invece, in grande quantità quando si utilizzano combustibili fossili. Comunque, sono in corso, a livello sia nazionale sia internazionale, anche programmi di ricerca e sviluppo per trasmutare gli isotopi a vita lunga in altri a vita relativamente breve, attraverso un bombardamento di neutroni a elevata energia (AEN/NEA 2006). Adatti allo scopo sono i reattori veloci, trasformati da produttori in bruciatori di plutonio, oppure acceleratori di protoni ad alta energia, che impattando contro nuclei pesanti ne strappano neutroni ad alta energia, i quali a loro volta realizzano la trasmutazione voluta. Effettivamente, si tratta di una strada interessante, che potrebbe migliorare ulteriormente la sostenibilità dell’energia nucleare. Tuttavia, bisogna valutare esattamente tutto il sistema coinvolto sotto il profilo sia della sicurezza sia dei costi e delle notevoli difficoltà tecnologiche da superare. Con questa opzione non si potrà ottenere l’eliminazione completa dei rifiuti a vita lunga, ma certamente una riduzione significativa della loro quantità.
Infine appaiono cruciali i rapporti con la popolazione, ai quali è stato necessario dedicare crescente attenzione senza però aver trovato una procedura vincente. La questione sta assumendo sempre più rilevanza anche in quei Paesi, come Francia e Giappone, dove il nucleare è maggiormente sviluppato.
Rischi e benefici.
Si comprende come l’energia nucleare abbia complessivamente evidenti benefici, tali da porla come valida alternativa ai combustibili fossili. È sicura, affidabile, economicamente competitiva, rispettosa dell’ambiente e in grado di sostituire massicciamente i combustibili fossili, almeno per la produzione dell’energia elettrica; è, inoltre, fornita di alternative tecnologiche per fronteggiare l’eventuale carenza di combustibile. C’è allora da chiedersi come mai abbia incontrato e tuttora incontri, anche se in modo decrescente, opposizioni da parte dell’opinione pubblica, di alcuni sistemi politici e del sistema della elettroproduzione. Effettivamente, vi sono alcune difficoltà non ben quantificabili e, talvolta, anche non ben definibili che riguardano la geopolitica o la politica in genere, la psicologia delle masse, gli interessi locali e aziendali. Si possono analizzare in dettaglio e articolare in ulteriori aspetti: a) geopolitica e politica (proliferazione, terrorismo, complessità del sistema autorizzativo, programmazione di lungo periodo, deposito geologico, timore di una carenza di uranio, interessi economici contrapposti); b) psicologia del pubblico (percezione del rischio, comunicazione e informazione); c) interessi locali e aziendali (rischio finanziario, sistemazione transitoria del personale dei cantieri, organizzazione di progetto e gestione).
Geopolitica
Della proliferazione si è già detto; qui basti ricordare che recenti avvenimenti lasciano prevedere un irrigidimento da parte delle grandi potenze su questo aspetto, da quando si è sospettato che programmi nucleari civili da parte di alcuni Paesi possano essere uno schermo dietro il quale svolgere programmi militari. In particolare, sono ritenuti critici i moderni impianti di arricchimento, che a buon diritto possono essere giustificati da un programma di costruzioni civili, ma allo stesso tempo sono facilmente deviabili verso la fabbricazione di uranio altamente arricchito, proprio quello che serve per la bomba. Pertanto, questa atmosfera di sospetto diventa di fatto un impedimento per una libera diffusione delle conoscenze e della possibilità di realizzare programmi civili in alcuni Paesi.
La sicurezza degli impianti nucleari in caso di attacchi terroristici è stata da sempre considerata dalle autorità preposte che hanno imposto specifiche misure di protezione. Tuttavia, dopo l’attacco alle Twin Towers del World trade center di New York (11 settembre 2001), il problema è stato rimesso in discussione. Infatti, due sono gli elementi di novità di questo attacco: il suicidio degli attentatori e l’uso di grandi aerei di linea. Per questo le autorità di sicurezza hanno dovuto riconsiderare il problema. Gli studi a tale riguardo hanno fornito risposte complessivamente positive e indicazioni sulle ulteriori precauzioni da prendere, anche se i dettagli non sono stati resi noti per evidenti ragioni di riservatezza.
Recentemente, si è fatto riferimento anche al rischio della cosiddetta bomba sporca, costruita combinando insieme un esplosivo convenzionale e materiale fortemente radioattivo, prelevato da qualche attrezzatura nucleare: per es., un elemento di combustibile scaricato da un reattore nucleare. Certamente una situazione più facile da realizzare rispetto a quella di colpire una centrale vera e propria, ma non così agevole, perché i materiali radioattivi sono ben custoditi e, soprattutto, ben catalogati. Inoltre, la gestione di tali materiali è molto pericolosa, se non si adottano particolari attrezzature remotizzate, inserite in locali appositi e ben schermati, disponibili solo in pochi laboratori al mondo. Comunque, l’effetto di tale ordigno sarebbe contenuto e probabilmente non superiore a quello che si potrebbe ottenere da una bomba normale ad alto potenziale.
La complessa contrapposizione tra autorità di sicurezza nazionali ed elettroproduttori sulle autorizzazioni da emanare per la costruzione di una centrale di potenza è per sua natura conflittuale, ma nel caso del nucleare questa contrapposizione è stata ed è particolarmente acuta. Questo aspetto ha determinato e rischia di determinare pesanti conseguenze sui tempi di realizzazione e sul funzionamento di un impianto nucleare. Inoltre, le procedure seguite comportano singole autorizzazioni per ogni passo della realizzazione, per cui l’autorizzazione successiva è condizionata dalla positiva conclusione di quella precedente. Si aggiunga poi che i criteri da applicare non sono uniformi a livello internazionale, e quindi un fornitore di impianti nucleari deve adeguare il progetto a criteri diversi, secondo il Paese nel quale l’impianto dev’essere installato: un aspetto molto penalizzante, che solo gli specialisti del settore possono apprezzare. Questa complessa problematica è stata ben analizzata e compresa, per cui si sta progressivamente correndo ai ripari. In primo luogo, si cerca di conglobare ogni permesso per le diverse fasi della realizzazione in un’unica autorizzazione, così che quando si decide di costruire un impianto, l’elettroproduttore, sostenendo solo l’onere per la documentazione, abbia in caso positivo la certezza di poter procedere senza più rischiare interruzioni lungo il cammino. Inoltre, per l’unificazione dei criteri da adottare sono in corso importanti iniziative, che dovrebbero portare entro pochi anni alla prevalenza di un unico sistema, condiviso da molti Paesi industrializzati.
È indubbio che la scelta dell’opzione nucleare richiede una programmazione ben definita, che abbracci un lungo periodo di tempo. Data la complessità del sistema da realizzare, la scelta di un Paese di pianificare una o poche centrali non è giustificabile sul piano di entità e articolazione delle risorse richieste: procacciarsi l’uranio a lungo termine; avere la certezza di poter accedere ai servizi di arricchimento e alla fabbricazione del combustibile; approntare le strutture di immagazzinamento dei manufatti radioattivi ricavati al momento dello smontaggio del reattore e, soprattutto, dei prodotti ad alta attività del combustibile esaurito; istituire un’autorità di sicurezza. Nella pianificazione, i periodi di tempo di interesse sono dell’ordine del mezzo secolo e, quindi, al di fuori delle prospettive di molti sistemi sociali e politici. Un classico esempio è rappresentato dalla situazione francese, e in tono appena minore da quelle di Giappone, Repubblica di Corea e Taiwan.
Per quanto riguarda l’aspetto dei depositi geologici per i rifiuti ad alta attività, trattandosi di manufatti così importanti, impegnativi e costosi, si pone la questione dell’opportunità di prevederne uno per ogni Paese, inclusi quelli meno adatti per dimensione o situazione geologica. Finora, si è postulato, anche per ragioni etiche, che ogni Stato dovesse trattare i propri rifiuti all’interno dei confini nazionali, non esportandoli in un altro Paese, seppure a titolo oneroso. La motivazione etica appare comunque poco pertinente, perché sotto questo aspetto l’importazione di combustibili fossili da un altro Paese, con il conseguente depauperamento di quel territorio, propone implicazioni forse più gravi. Un’alternativa, lievemente diversa, è quella ipotizzabile, per es., nel caso dell’Unione Europea, ossia costruire pochi depositi comuni dove far confluire i rifiuti di tutti i Paesi dell’Unione.
Stimare le risorse di uranio disponibili è un problema assai difficile, e per di più controverso. A differenza dei combustibili fossili, non si tratta in questo caso di definire le quantità disponibili in assoluto, che per l’uranio sono praticamente illimitate, ma di stimare le quantità ottenibili a costi compresi entro valori prefissati. Partendo da minerali a più alta concentrazione in uranio e quindi a più basso costo d’estrazione e passando via via a minerali sempre più poveri, si potrà ottenere così, in linea di principio, una curva riserve/costi unitari crescente. Tale curva dovrebbe avere una pendenza abbastanza accentuata, se ci si basa sulla estrapolazione dei costi attuali. Tuttavia, qualche esperto ipotizza, in analogia a quanto è avvenuto per altri elementi (rame, zinco, piombo), che, per l’effetto combinato dei miglioramenti tecnologici – i giacimenti più poveri saranno sfruttati in un secondo momento – e dei risparmi unitari associati al fatto di dover trattare una maggior quantità di minerale, si abbia una crescita dei costi inferiore a quella prevista. Volendo ora valutare l’ammontare delle riserve dei giacimenti esistenti nel mondo, bisogna anche tener presente che il mercato dell’uranio è stato poco regolare. Pertanto, le attuali previsioni sulle riserve d’uranio non si basano su un’attività di ricerca uniforme e continua, e non possono quindi ritenersi del tutto attendibili. Ciò premesso, sulla base delle stime attuali (AEN/NEA, IEA/AIE 2008), le riserve sicure di uranio consentirebbero di proseguire l’attuale consumo per poco meno di un secolo, e per poco meno di tre secoli considerando le riserve potenziali. Questo tempo è ampiamente sufficiente, anche riducendolo per la crescita dei consumi, per mettere in servizio i reattori veloci che, come detto, sfruttano molto meglio il combustibile, consentendo il perdurare di queste riserve per un tempo praticamente infinito.
È indubbio che nel campo dell’energia gli interessi economici siano enormi. Pertanto è immaginabile che scelte quali sviluppo del nucleare, o ritorno al carbone, sequestro e immagazzinamento dell’anidride carbonica, maggior uso di energie rinnovabili e altro, suscitino interessi contrapposti tra i vari operatori e tra i Paesi, che si estrinsecano in azioni complesse e non evidenti, l’effetto delle quali non dev’essere sottovalutato.
Psicologia del pubblico.
La percezione del rischio da parte della popolazione è un aspetto delicato e complesso, che ha sollecitato numerosi studi da parte di psicologi ed esperti di comunicazione. Lo scopo è quello di capire come mai una tecnologia giudicata sicura da tecnici qualificati e garantita da una lunga esperienza di funzionamento sollevi comunque timori da parte del pubblico, che in molti casi hanno portato a un rifiuto della tecnologia in modo preconcetto. Si è compreso che la percezione del rischio da parte degli individui è influenzata da fattori soggettivi, che si basano su elementi psicologici e non su argomenti scientifici. Quelli principali riferiti al pubblico generico sono:
a) si ritiene più accettabile, anche se più elevato, un rischio assunto volontariamente rispetto a quello che non si può influenzare (per es., il fumo contro l’inquinamento atmosferico, l’automobile contro l’aereo);
b) si ritiene più accettabile un rischio con cui si ha familiarità, quindi si temono maggiormente i pericoli con gravi conseguenze, ma con bassissime probabilità, rispetto a quelli meno gravi, ma proporzionalmente assai più probabili;
c) la prevenzione di un danno futuro appare più importante della promessa di un futuro benessere;
d) è molto elevata la sensibilità alle modalità di descrizione del rischio.
Interessi locali e aziendali.
Considerando la competitività del costo dell’energia nucleare ci si può chiedere come mai un elettroproduttore privato non scelga con determinazione questa tecnologia. In realtà, la competitività dei costi si basa su valutazioni a preventivo, che non scontano la possibilità che si manifestino imprevisti durante la realizzazione e poi durante l’esercizio. In una tecnologia in cui sono prevalenti i costi di capitale, gli imprevisti economicamente penalizzanti sono quelli che comportano un ritardo nella costruzione, una fermata durante l’esercizio, un blocco definitivo dell’impianto prima della fine della sua vita operativa. Ciò è avvenuto diverse volte nel passato, non tanto per ragioni tecniche quanto per l’intervento delle autorità di sicurezza o di quelle politiche, sollecitate da supposte o reali preoccupazioni del pubblico. Queste situazioni hanno aggravato molto i costi, determinando così un rischio finanziario per l’elettroproduttore. Tuttavia, il vantaggio economico del nucleare rispetto ai combustibili fossili è in continua crescita, e gli inconvenienti con implicazioni economiche si sono progressivamente attenuati secondo una tendenza che sarà ancora più marcata nel futuro, grazie alle già citate nuove modalità di autorizzazione da parte delle autorità di sicurezza.
Nei siti destinati alla costruzione di centrali nucleari, di solito vicino a piccole comunità, l’installazione del cantiere comporta la presenza di migliaia di addetti che per qualche anno creano una pressione sul territorio, destinata a ridursi sostanzialmente nel momento dell’entrata in funzione della centrale, in relazione alle limitate esigenze di personale necessario per la gestione. Tale rilevante perturbazione socioeconomica, che si ripercuote sul territorio circostante l’impianto, se può comportare vantaggi per la comunità locale, in vari modi ripagata del disagio, può anche sottoporre le autorità locali a pesanti difficoltà gestionali. Tuttavia, nei Paesi dove è ben gestita la comunicazione verso il pubblico, molte comunità locali si candidano per ottenere l’istallazione di una centrale.
Si deve, infine, sottolineare che una ripartenza generalizzata nel nucleare può essere ostacolata dall’inevitabile scelta delle alternative tecnologiche in campo: realizzare subito i reattori di III generazione, attualmente commercializzabili e convalidati dalle autorità di sicurezza, oppure attendere la messa a punto dei reattori innovativi di IV generazione. È indispensabile che su queste innovazioni non si arrestino le attività di ricerca e sviluppo.
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